Il libro:
ISBN: 978-987-24469-3-2
Casa Editrice: Areté Grupo Editor
Categoría: Politica Internazionale.
Anno di edizione: 10/2011
Lingua: spagnolo
Pagine: 384
L’autore.
Alberto Hutschenreuter ha studiato Scienze Politiche ed ha completato la laurea di secondo grado in Controllo e Gestione delle Politiche Pubbliche ed ha ottenuto, con una laurea con lode, un dottorato in Relazioni Innternazionali presso l’Università del Salvador. Si è laureato nel Corso di Studi Superiori della Scuola di Difesa Nazionale.
E’ stato professore nell’Università di Buenos Aires e attualmente è titolare della cattedra di Geopolitica nella Scuola Superiore di Guerra Aerea. Attualmente è anche coordinatore dell’area di Geopolitica nel Centro Argentino di Studi Internazionali e saggista. E’ membro del Comitato Scientifico di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”.
Recensione.
Il Professore Alberto Hutschenreuter ci propone un saggio importante per la comprensione del declino dell’URSS (fine della Guerra Fredda) e la successiva ascesa della Federazione Russa, tra l’altro ancora in atto.
Il testo si articola in tre distinte fasi storiche che agevolano il lettore in una facile comprensione delle dinamiche concernenti il blocco sovietico e le tematiche trattate. In tutta la sua esposizione, il saggio non perde mai la chiarezza rendendo piacevole ogni approfondimento necessario.
Nella prima parte si analizza il ventennio antecedente la caduta del Muro di Berlino e la conclusione della Guerra Fredda. L’autore analizza con estrema cura il declino russo indicando quale causa della fine del bipolarismo la stessa URSS, incapace di reagire al cambiamento tecnologico produttivo e militare. Pertanto si evince un collasso del sistema e non una “vittoria” cercata dagli Stati Uniti. Appare evidente, infatti, che il blocco occidentale appariva rassegnato ad accettare il bipolarismo e la politica estera statunitense era propensa al dialogo post Guerra Fredda. Sul finire degli anni ’70, però, si è palesata l’incapacità russa di ottemperare alle esigenze di ristrutturazione economica interna e rimodernamento militare.
La seconda parte del saggio focalizza l’attenzione sul processo di “umiliazione” subito dal blocco sovietico a partire dalla fine degli anni ’80. Qui la Russia attiva la famosa Perestroika, ossia apre il proprio mercato e la propria politica al modello occidentale globalizzante. L’autore identifica dal 1987 al 1993 ben 12 eventi determinanti per il declino di uno degli attori più importanti del IXX e di gran parte del XX secolo:
- L’Accordo sulle Forze Nucleari di Fascia Media (1987)
- La caduta dell’impero sovietico nell’Europa Centro-Orientale (1989-1990)
- La riunificazione della Germania
- La dissoluzione dell’Organizzazione del Trattato di Varsavia (1991)
- La Guerra del Golfo (1991)
- Lo sgretolamento e la dissoluzione dell’Unione Sovietica (1991)
- L’adattamento incondizionato alle direttive statunitensi
- L’adozione dell’economia di mercato
- Il Trattato di Riduzione delle Armi Strategiche (START II)
- La situazione delle armi convenzionali
- La guerra nei Balcani
- L’iniziativa di ampliamento della NATO
Tutti fattori irrimediabilmente fondamentali al declino e all’umiliazione internazionale di Mosca. Tuttavia, proprio negli anni ’90, Hutschenreuter individua l’esistenza di una corrente antiliberista, volta a riportare l’area di influenza russa al di là delle frontiere dell’ex URSS.
Tale pensiero risulta essere alla base del nuovo corso russo (terza parte dell’opera) improntato su una riconquista concreta della qualità di superpotenza internazionale alla pari degli Stati Uniti. Tale percorso, iniziato nella seconda metà degli anni ’90 e tutt’oggi in atto, tende a ricostruire relazioni internazionali orizzontali e non più verticali (struttura propria dell’unilateralismo). Altra tappa fondamentale di tale processo è la ristrutturazione del sistema interno dello Stato, tappa fondamentale per una proiezione esterna forte e capace di porsi quale concreta alternativa al dominio statunitense. Sulla base di tale analisi comprendiamo agevolmente le tappe della riparazione russa: riqualificazione come Stato; riposizionamento quale primo referente degli stati nati dallo smembramento dell’URSS; riotteni mento del riconoscimento mondiale del ruolo di potenza economica e militare.
Il Professor Hutschenreuter, nella sua analisi, focalizza l’attenzione sulle dinamiche concernenti la politica estera di Mosca, senza tuttavia trascurare i fondamenti di una politica e di un’economia interna fondamentali nella comprensione dei tre periodi storici descritti.
Infine, l’Autore rileva l’ambiguità della persistenza della NATO, così come la scarsa coerenza della sua operatività in diverse aree del globo.
INTERVISTA ALL’AUTORE.
B. – Buon giorno Professore. Innanzitutto le faccio i complimenti per il suo saggio, frutto di un’importante opera di ricerca e studio corredato da numerosi viaggi a Mosca per avere una visione a 360 gradi della tematica trattata. Nel suo saggio Lei considera l’ascesa politica di Gorbaciov come una rivoluzione generazionale nel Cremlino. Si può dire, a tale proposito, che anche l’ascesa di Putin ha avuto un analogo significato. Tali cambiamenti hanno portato a mutamenti radicali della politica russa, sia a livello endogeno che esogeno. Nel primo caso, con Gorbaciov si è vissuto un liberismo che di fatto ha sancito la sconfitta dell’URSS nella Guerra Fredda; nel secondo caso, Putin ha ricostruito l’identità russa seguendo una politica pragmatica volta a ristrutturare e difendere il proprio mercato dalle intemperie della globalizzazione. Dopo Putin ci sarà l’ennesima rivoluzione con una nuova Perestroika o le prospettive del multipolarismo si concretizzeranno?
H. – Bella domanda. Capisco che ci sono differenze tra Gorbaciov e Putin: mentre il primo è stato una guida di natura trasformativa, il secondo è stato ed è un leader più convenzionale. Non è noto se, in effetti, Gorbaciov abbia voluto apportare cambiamenti (prevalentemente socioeconomici) su vasta scala, al fine di salvare l’Unione Sovietica dalla stagnazione in cui si trovava da anni (praticamente dagli anni Cinquanta, quando il sistema economico sovietico iniziò ad accusare problemi di produttività), e trasformarla in una superpotenza più completa o meno unidimensionale, cioè non solo una superpotenza strategico-militare, ma senza abbandonare il modello ideologico socialista; tuttavia si è trattato di un politico consapevole del fatto che i cambiamenti comportavano l’abbandono di questi modelli e la necessità di intraprendere qualcosa di sconosciuto. Ciò di cui sono sicuro è che Gorbaciov non immaginava che con la sua ristrutturazione sarebbe finita, oltre al socialismo, anche la stessa Unione Sovietica. Lo specialista Jacques Levesque è stato esplicito nella sua analisi: “Gorbaciov, l’uomo scelto per salvare il sistema, paradossalmente fu colui che lo liquidò”.
Per quanto riguarda Vladimir Putin, è una guida che fa parte della tradizione zarista-sovietica, cioè assegna la priorità alle questioni inerenti il settore esterno, all’armamento militare, al nazionalismo, ecc. La sua grande sfida, che determinerà la sua definizione quale guida della Russia, è la modernizzazione del paese. Se nei prossimi anni il presidente russo riesce a trasformare la Russia in un attore maggiormente plurale in termini di potenza, ossia la Russia arriva a svolgere un crescente ruolo nel segmento economico, tecnologico, commerciale, ecc, allora Putin si unirà al gruppo delle guide zar-sovietico-russe protagoniste delle grandi trasformazioni: Pietro il Grande, Caterina, Alessandro II, Stalin, Gorbaciov e Eltsin. Fino ad ora ha dimostrato di essere un leader tradizionale con un po’ di Potemkin, vale a dire più “illusioni” che fatti (sempre parlando del problema della modernizzazione).
B. – Giorni fa, durante una conferenza organizzata dal CeSEM, Igor Panarin, un importante geopolitico russo, ha illustrato la centralità del blocco eurasiatico quale possibile realtà “antagonista” al blocco occidentale. Nella fattispecie Panarin illustrava come grande obbiettivo finale per Mosca, quello di estendere la propria influenza dalla Scozia alla Nuova Zelanda. In concreto appare uno scenario molto distante dal prossimo futuro. Tuttavia appare interessante la formazione di un asse Berlino-Mosca (che di fatto coinvolgerebbe l’intera Europa). Come valuta il modello eurasiatico e che prospettive ne dà?
H. – Beh, la concezione geopolitica di Panarin gode di una relativa adesione in Russia, dato che non è difficile associare il suo movimento con il vecchio riflesso o vizio geopolitico di timbro imperiale ed espansionista, un’idea che è costata cara alla Russia, e, soprattutto, all’URSS che ha conosciuto il costo che ha implicato l’estensione geopolitica senza la debita stima geoeconomica. Altri geopolitici seguono questa idea in Russia, ma onestamente è molto difficile immaginare per ora una Russia “seguita” da attori come la Germania, Cina, Giappone, ecc… Mi riferisco alla sostenibilità di un seducente concetto di politica interna ed estera che risulta interessante nella misura in cui “tutti vogliono ciò che vuole la Russia”, per dirla in termini di “soft power” utilizzati da Joseph Nye. Anche all’interno della sua tradizionale area di influenza, la Federazione Russa deve affrontare problemi di “riluttanza” da parte delle ex repubbliche sovietiche durante il consolidamento di uno spazio complementare (e non di incorporamento). Si è cercato di far rivivere l’”eurasiatismo”, una concezione geopolitico-geoculturale del XIX secolo e dell’inizio del XX secolo che visualizza la Russia rivolta verso Oriente piuttosto che verso Occidente, ma finora non è stato superato il dibattito, dal momento che non pochi identificano questo concetto con un modello protostorico russo di dominazione ed imperialismo.
D’altra parte, è importante non confondere la rilevanza energetica (somministrazione di gas e petrolio) con l’attrattività o l’influenza. Tuttavia, è interessante seguire alcune idee che sostengono un crescente riavvicinamento tra l’Europa e Russia, più propriamente, tra Germania e Russia, un rapporto che, tranne durante le guerre mondiali, è sempre stato buono. Il geopolitico Alexander Dugin scommette (a mio parere in modo troppo ottimistico) sul rapporto tra Europa e Russia.
B. – Rimanendo in tema di multipolarismo, se U.S.A. e Russia si contendono l’Europa per ampliare la propria area d’influenza e se la Cina, impenetrabile e capillare nel resto del mondo, appare ormai un interlocutore internazionale imprescindibile, l’America Latina sembra finalmente matura dal punto di vista politico per liberarsi dalla nomenclatura di “cortile di casa” degli Stati Uniti. Tuttavia manca ancora l’emancipazione di Stati importanti quali Colombia, Cile e Messico. Questi rappresentano attori cruciali capaci di dare all’intera regione la consacrazione ad ennesimo polo decisionale del globo terrestre. Tre stati che per dimensioni e importanza potrebbero far cedere ogni resistenza liberista filostatunitense propria di sovranità più piccole (Paraguay, Perù, Haiti, Panama, ecc….). Cosa ci possiamo aspettare dalla regione latinoamericana nel prossimo futuro?
H. – Ci sono diverse questioni nella sua riflessione. Per prima cosa, in effetti, gli Stati Uniti non sono più l’attore egemone nella regione. Geopoliticamente, lo spazio di maggiore interesse degli Stati Uniti rimane il Messico, America Centrale ed i Caraibi: un “mare nostrum” americano. Poi l’interesse è discendente. Il punto è che gli Stati Uniti non hanno attualmente alcun concetto per la regione che potrebbe favorire i paesi dell’America Latina e che a sua volta implichi l’ottimizzazione degli interessi statunitensi. In questo senso, direi che l’ultimo presidente che ha avuto un’idea molto chiara è stato Clinton. Si è trattato fondamentalmente di un’idea basicamente economico-commerciale che nel concreto ha causato un massiccio smantellamento della capacità dello Stato in materia di barriere economiche. Non tutti i paesi crederono nella “bontà” del “regime della globalizzazione”, una posizione che ha permesso loro di stabilire livelli di protezione più elevati rispetto ad altri.
Attualmente la regione offre diverse sfumature ideologiche: direi che ci sono paesi con regimi conservatori che non mettono in discussione i rapporti con Washington e cercano di raggiungere vantaggi economico-commerciali, per esempio, Colombia, Cile; altri di natura socialdemocratica che basano il rapporto con gli Stati Uniti su un modello pragmatico, come il Brasile, Perù, Uruguay; in fine altri che ancora credono che contrapporsi agli Stati Uniti paga. Queste differenze non contribuiscono, ovviamente, alla consolidazione di una complementarietà regionale che sono fondamentali quando si costruisce il potere. E’ per questo che il Brasile è più identificato come attore del “gruppo BRICS” che come attore del (svalutato) Mercosur.
In questo contesto, altri attori sono sbarcati nella regione: oggi la Cina è l’attore più importante nei rapporti commerciali del Brasile. Però allo stesso modo si è accresciuta la partecipazione di soggetti al di fuori della regione, ad esempio, la Russia, in particolare nel settore della difesa. Non vi è nulla di negativo nel fatto che avvenga ciò. Il rovescio della medaglia è che i paesi latinoamericani continuano a considerare i termini d’integrazione internazionale in chiave individuale, rinviando per l’ennesima volta la necessaria costruzione di una potenza regionale.
B. – Mi permetta un’ultima riflessione sul Sud America. Il Partido de los Trabajadores (PT) brasiliano ha consolidato il suo progetto politico dimostrando di poter fare a meno del carisma di Lula; la Bolivia sembra creare un socialismo che vada ben oltre la figura di Morales; i prossimi sei anni in Venezuela sembrano focalizzati sul consolidamento del progetto socialista di modo che questo possa sopravvivere anche senza Chavez. In Argentina, quali saranno le idee che seguiranno al kirchnerismo e al carisma dell’attuale presidentessa?
H. – Il kirchnerismo definisce il suo modello da una cosiddetta “matrice di inclusione sociale”. Però manca di una strategia per realizzare questo modello. Poi succede quello che è successo a tutti coloro che in America Latina hanno perseguito idee senza sapere come raggiungerle: cadere nel populismo, che è il modo più rapido per l’impoverimento e per gettare il presente e il futuro del paese dalla finestra. L’unico modo per raggiungere la simmetria tra la democrazia sostanziale, la crescita economica e l’equità sociale è il miglioramento istituzionale. Lo sviluppo sano delle istituzioni pubbliche è una questione di carattere strategico. Quando un paese raggiunge la salute istituzionale, le elezioni diventano una procedura. In Argentina, le elezioni sono una questione di sostanza, mentre lo sviluppo istituzionale diventa una questione procedurale.
B. – Mi permetta una ultima domanda che è d’obbligo visto quanto accade nel Vicino Oriente. Tra rivolte arabe e conflitto israelo-palestinese, si palesano a mio avviso due realtà ormai longeve: il colonialismo non passa mai di moda e mentre i grandi attori globali “giocano” ad ampliare i propri confini d’influenza, Israele appare ostinato ad ottenere una supremazia regionale, incurante del precario equilibrio geopolitico al quale Tel Aviv stessa appartiene e che coinvolge l’intera regione. Come valuta, Professore, queste due grandi costanti della storia (il persistere del colonialismo e l’ostinazione israeliana)?
H. – Non so se chiamarlo colonialismo; ciò di cui sono certo è che al momento di valutare le cause della violenza regionale, si deve essere avere un approccio plurale e non parziale. Quello che voglio dire è che senza dubbio il terrorismo di matrice islamista è un fattore di instabilità inevitabile, ma è necessario chiedersi perché il terrorismo esiste: in gran parte le azioni di terrorismo sono dovute ad una distribuzione ineguale della giustizia, per esempio , le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza la cui osservanza si esige in Siria, in relazione alla sua occupazione del Libano, e le risoluzioni la cui osservanza non è necessaria, ad esempio, per Israele in relazione agli spazi occupati nel territorio palestinese. Queste sono conosciute come politiche di doppio criterio, e sarà sempre un fattore o agente di violenza.
Inoltre, ci sono attori della regione che hanno costruito il loro potere, ma a cui viene negato il riconoscimento strategico: in particolare, sto parlando dell’Iran. Penso che se domani Teheran si dovesse impegnare a rispettare l’esistenza di Israele (che si dovrebbe fare), la pressione internazionale continuerà. Questa è un’altra causa di instabilità. Per quanto riguarda l’ostinazione israeliana, la collego ad una categoria geopolitica evidenziata da autorevoli specialisti: dal 1967 i riferimenti territoriali israeliani sono stati modificati, nel senso che Israele crede di non dover restituire i territori occupati nella guerra di quell’anno, considerandoli spazi appartenenti al “popolo” israeliano e non allo “Stato” di Israele. Se così fosse, e finora non vi è alcuna indicazione contraria, c’è poco spazio per l’ottimismo.
* William Bavone è Segretario Scientifico e responsabile dell’area latinoamericana del CeSEM (Centro Studi Eurasia Mediterraneo).