Il testo seguente riproduce l’intervento del direttore di “Eurasia” al colloquio su Jean Parvulesco che ha avuto luogo a Parigi il 23 novembre 2012.
Quando, adolescente, vidi al cinema Fino all’ultimo respiro, non potei immaginare che in seguito mi sarei occupato di Jean Parvulesco, il cui ruolo era interpretato nella pellicola da Jean-Pierre Melville. Invece alcuni anni dopo, nel 1974, appresi dagli atti di un processo politico che il personaggio della storia di Jean-Luc Godard esisteva realmente e avrebbe voluto realizzare insieme con altri sovversivi, nella prospettiva di un prossimo Endkampf (1), un accordo fondato su due punti: “a) adesione alla politica di lotta internazionale al bipolarismo russo-americano nella prospettiva della ‘Grande Europa’, dall’Atlantico agli Urali; b) contatti con le forze che dal Gaullismo e dal neutralismo euroasiatico si proponevano questa linea internazionalistica” (2).
Tre anni dopo, nel 1977, mi capitò di leggere in un bollettino redatto da Yves Bataille, “Correspondance Européenne”, un lungo articolo intitolato L’URSS e la linea geopolitica, che sembrava confermare le voci diffuse da alcuni “dissidenti” sovietici circa l’esistenza di una tendenza eurasiatista all’interno dell’Armata Rossa. L’autore dell’articolo (del quale pubblicai la traduzione italiana numero di gennaio-aprile 1978 di un periodico che si intitolava “Domani”) era Jean Parvulesco, il quale riassumeva nei punti seguenti le tesi fondamentali di quelli che egli presentava come “i gruppi geopolitici dell’Armata Rossa”, tesi espresse in una serie di documenti semiclandestini giunti in suo possesso.
1. Il “Grande Continente” eurasiatico è uno e indivisibile, “dall’Atlantico al Pacifico”.
2. La politica europea della Russia sovietica può dunque essere soltanto una politica di unità continentale, solidale con un’Europa integrata intorno alla Francia ed alla Germania.
3.L’unità del Grande Continente eurasiatico deve essere perseguita anche mediante l’istituzione di una struttura di relazioni economice e politiche con l’Africa, il Mondo Arabo, il Giappone, l’Indonesia.
4. Gli Stati Uniti restano il nemico fondamentale dell’unità geopolitica eurasiatica.
5. La missione storica della Russia non è terminata; essa è appena iniziata.
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Secondo uno “smilzo libretto” citato nel lungo articolo di Parvulesco, nel giorno stesso della morte di Stalin tre santi staretz sarebbero partiti a piedi da Kiev, ciascuno di loro assumendo la responsabilità apostolica del rinnovamento finale dell’Ortodossia in un’area culturale del Continente. Dei tre staretz, Elia avrebbe preso la Russia, Alessandro la Siberia, Giovanni l’Europa.
Quest’ultimo, il Fratello Giovanni, benché perseguitato per anni dalla Securitate romena, avrebbe prodotto, con la sua sola presenza sul luogo, il “cambiamento interno” del regime comunista di Bucarest. Per sostenere questa affermazione, Parvulesco evoca la testimonianza del romanzo Incognito di Petru Dumitriu (1924-2002), apparso nel 1962 nelle Éditions du Seuil.
Petru Dumitriu (1924-2002) fu un romanziere romeno, il cui capolavoro, Cronica de familie, era stato anch’esso pubblicato in Francia da Seuil, nel 1959. Nel 1960, approfittando di un viaggio nella Repubblica Democratica Tedesca, Dumitriu passò clandestinamente a Berlino Ovest e chiese asilo politico alle autorità francesi, che glielo rifiutarono; lo ottenne nella Germania Federale. In seguito visse a Francoforte e a Metz, dove morì nel 2002.
Il Frère Jean che compare in Incognito di Petru Dumitriu è verosimilmente l’alter ego letterario del monaco russo Ivan Kulygin (1885-?), esponente di una linea esicastica risalente al grande staretz ucraino Paisie Velickovskij (1722-1794), che visse nel XVIII secolo nel monastero di Neamtz in Moldavia e poi a Optina Pustyn’. Nel novembre 1943 il Padre Ivan Kulygin era fuggito dall’Unione Sovietica insieme col metropolita di Rostov e aveva trovato rifugio nel monastero di Cernica, a Bucarest. Chiamato in Romania Ioan Străinul, cioè Giovanni lo Straniero, il Padre Ivan divenne la guida spirituale del Roveto Ardente (Rugul Aprins), un gruppo d’intellettuali romeni che si proponeva di rivivificare la tradizione esicastica. Ivan fu arrestato dai Sovietici nell’ottobre 1946; processato e condannato nel gennaio 1947 a dieci anni di lavori forzati, fu deportato in URSS, dove si persero le sue tracce.
Jean Parvulesco non è il solo a parlare di un “cambiamento interno” prodotto in Romania dall’azione spirituale del Fratello Giovanni, ossia del Padre Ivan. Anche Alexandru Paleologu, che fu ambasciatore di Romania a Parigi, scrisse che, dopo la liberazione dei sopravvissuti del gruppo del Roveto Ardente, che ebbe luogo grazie all’amnistia voluta da Gheorghiu-Dej, “le nuove generazioni, i giovani assetati di Dio, (…) diventarono, in qualche modo, i testimoni di secondo grado di un movimento cristiano che seppe svolgere un ruolo ancor più importante di quanto non si potesse credere e che, in verità, si rivelò di ‘ampio respiro’ e di influenza profonda” (3).
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In seguito, ho trovato alcuni dati biografici di Jean Parvulesco in una scheda della Securitate romena compilata negli anni Cinquanta, che traduco integralmente. “Jean Pîrvulescu, figlio di Ioan e di Maria, nato il 29 settembre 1929 a Piteşti, ultimo domicilio a Craiova, strada Dezrobirii n. 25. Nel 1948 è scomparso dal suo domicilio ed ha passato la frontiera in maniera fraudolenta; nel 1950 ha scritto da Parigi, Francia, ai suoi congiunti nella RPR [Repubblica Popolare Romena]. Nel 1956 è stato segnalato che, insieme con la spia Ieronim Ispas, era in procinto di venire in Romania sotto copertura di rimpatrio, in missione di spionaggio. Nel caso in cui venga identificato, sia arrestato” (4).
Piteşti, la città natale di Jean Parvulesco, sorge sulla riva dell’Argeş, un fiume che rientra nello scenario di una celebre leggenda romena: la leggenda di Mastro Manole, costruttore del monastero commissionato da Negru Voda, dal quale la famiglia Parvulesco rivendica la propria ascendenza.
Piteşti è situata vicino alla regione storica dell’Oltenia, la cui capitale è Craiova, ultimo domicilio romeno di Jean Parvulesco. La casa di strada Dezrobirii, espropriata dalle autorità della RPR, dopo la “rivoluzione” del 1989 è stata demolita per far posto ad un McDonald’s. Quod non fecerunt barbari…
Nella medesima regione – in cui nacque anche Vintilă Horia (1915-1992), destinato pure lui a scrivere in francese - si trova la località di Maglavit, dove, dal 31 maggio 1935, un pecoraio illetterato di nome Petrache Lupu (1908-1994) diventò il destinatario delle comunicazioni di un’entità che egli chiamava Moşul, ossia “il Vecchio”, e che veniva ritenuta una sorta di teofania. “A Maglavit e nei dintorni – si legge sulla stampa dell’epoca – prevale uno stato d’animo del tutto nuovo. La gente ha accolto le esortazioni di Petrache Lupu a cercar d’imporsi un tipo di vita diverso” (5).
L’eco che questi avvenimenti ebbero in Romania (si parlava della “psicosi di Maglavit”) indusse Emil Cioran a mutar parere circa lo scetticismo del popolo romeno ed a riporre le sue speranze in un imminente grandioso fenomeno spirituale e politico. “Non si può dire – scriveva Cioran – che cosa sarà; ma si può dire che, se non si verifica, noi siamo un paese condannato” (6).
Il veggente di Maglavit trasmise una sorta di “benedizione” a Mihai Vâlsan (1911-1974); siccome i messaggi del “Vecchio” sembravano annunciare ai Romeni che la loro terra sarebbe diventata la sede di un centro spirituale come la era già stata la Dacia nell’antichità, Vâlsan pensava che tutto ciò avesse a che fare col Re del Mondo di cui parlava René Guénon in un suo libro. E’ noto lo sviluppo di questa storia (7).
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Quello che qui ci può interessare, è la posizione di Parvulesco nei confronti di Cioran e di Vâlsan, due romeni che, come lui, scelsero di abbandonare la lingua materna per scrivere esclusivamente in francese.
Per quanto riguarda Cioran, Parvulescu ha detto a Michel d’Urance in un’intervista apparsa su “Éléments”: “Reco ancora in me il dolore atroce provato davanti alla spaventosa automutilazione che Cioran aveva inflitta al suo genio profondo, alla sua ispirazione intima, per potersi fare relativamente ammettere al banchetto di nozze democratico-marxista del dopoguerra – che allora era al culmine. Il nichilismo di Cioran, per quanto potesse andare lontano, non ha mai rappresentato una scelta dottrinale, non avendo mai rappresentato nient’altro che il segno esacerbato della constatazione del disastro, davanti allo sprofondare della civiltà europea ormai giunta alla fine” (8).
Quanto a Michel Vâlsan, Jean Parvulesco dovette vedere in lui, in qualche modo, l’intermediario segreto tra l’insegnamento di René Guénon e il Generale De Gaulle.
Nella Spirale prophétique Parvulesco si chiede: “Quali sono (…) i rapporti ancora esistenti e i rapporti a venire tra l’opera di René Guénon e quella di Michel Vâlsan? Vi è stata, vi è, dell’una o dell’altra, la continuazione di uno stesso ministero, in maniera esclusiva, o invece l’opera di Michel Vâlsan appare, o comincia ad apparire, come la proposta, come il frutto ardente, di una specificazione già differenziata?” (9).
Parvulescu era convinto dell’ “esistenza di una convergenza velata ma assai profonda tra l’insegnamento di René Guénon e le dimensioni confidenziali, anzi occulte, dell’azione storica e transistorica intrapresa da Charles de Gaulle” (10).
Se dovessimo dar credito alle affermazioni di Jean Robin, Michel Vâlsan avrebbe svolto un ruolo occulto presso “quel grande guénoniano che fu il generale De Gaulle” (11), collocato dallo stesso Vâlsan – sempre a dire di Jean Robin – tra le prefigurazioni del Mahdi” (12) che si sono manifestate nel XX secolo. Riportando un’informazione che egli dichiara di aver raccolta da “certi discepoli di Michel Vâlsan” (13), Jean Robin fa allusione ad una corrispondenza epistolare intercorsa tra Vâlsan e il Generale, nonché ad una “misteriosa iniziazione” che il primo avrebbe trasmessa al secondo nei giardini dell’Eliseo ed aggiunge che Vâlsan era in grado di preannunciare ai suoi discepoli le decisioni di Charles de Gaulle, comprese le meno prevedibili.
Ciononostante Michel Vâlsan non figura nella lista degli scrittori che, stando a quanto affermato da Parvulesco nell’intervista apparsa su “Éléments”, “hanno contato di più per [lui], hanno sotteraneamente alimentato la [sua] opera”. Si tratta di un elenco di trentasei autori, tra i quali troviamo Virgilio e Dante, Rabelais e Pound, Gobineau e Saint-Yves d’Alveydre, ma anche Haushofer, Hamsun, Drieu La Rochelle, Céline, Guénon, Corbin, Heidegger.
L’unico connazionale citato da Parvulesco in questa lista è “Basile Lovinesco”: quel Vasile Lovinescu (1905-1984) che ci ha fornito l’esegesi ermetica della leggenda di Mastro Manole. D’altronde, quando nella Spirale prophétique leggiamo la frase sui “residui carpatici dell’antico culto del dio Zamolxis” (14), è proprio Vasile Lovinescu che ci viene in mente, col suo saggio sulla “Dacia iperborea”, firmato con lo pseudonimo di “Géticus” e originariamente apparso in francese tra il 1936 e il 1937 su “Études Traditionnelles” (15).
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Per quel che riguarda Mircea Eliade, nell’intervista rilasciata a Michel d’Urance Jean Parvulesco dice che, secondo un’informazione da lui ricevuta nella redazione di “Etudes”, Jean Daniélou avrebbe esortato Eliade, su richiesta di Pio XII, ad impegnarsi in un lavoro intellettuale avente lo scopo di esporre una nuova visione della storia delle religioni, per combattere negli ambienti universitari l’egemonia culturale del marxismo e dei suoi derivati. L’impegno di Eliade in questa impresa, osserva Parvulesco nella medesima intervista, “non gli ha più consentito di occuparsi tanto di letteratura, quando i suoi romanzi romeni d’anteguerra, come le sue novelle più recenti, non avevano cessato di fornire la prova clamorosa della sua straordinaria vocazione di romanziere”. In particolare, Parvulesco afferma che due romanzi di Eliade, Minuit à Serampore e Le secret du Docteur Honigberger (rispettivamente pubblicati in Romania nel 1939 e in Francia da Stock nel 1956 e nel 1980), contengono un’occulta concezione tantrica riguardante la sospensione e il cambiamento del corso e della sostanza stessa della storia (16). Tutti i grandi romanzi romeni scritti da Eliade prima della guerra, dice ancora Parvulesco, “istruiscono pateticamente il processo di questa generazione [la "nuova generazione" o "giovane generazione" della Romania interbellica] di alti mistici sacrificati in un disegno occultamente provvidenziale, i quali dovettero in qualche modo subire la prova dell’immolazione cruenta, fino ad attirarla inesorabilmente su loro stessi” (17).
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Tra i romanzi eliadiani d’anteguerra, è stato soprattutto Întoarcerea din rai (“Il ritorno dal paradiso”) a toccare l’anima di Parvulesco, e questo per via di una citazione poetica inserita da Eliade nel testo. “Leggendo ancora adolescente Il ritorno dal paradiso di Mircea Eliade, – scrive Parvulesco –acquisii la consapevolezza dei poteri sopraumani contenuti in un inno orfico di Dan Botta che vi si trovava citato (senza dubbio a ragion veduta, non so più). Quarant’anni più tardi, ci sono dei frammenti dell’inno orfico di Dan Botta che ancora mi ossessionano. (…) Fu nel momento stesso della prima lettura dell’inno orfico di Dan Botta che venne ad impadronirsi di me Khidr il Verde, sulla cresta d’un’immensa onda di luce verde, sopracosmica, luce fondamentale (…) della Via Deltaica, che riguarda l’umanità nei cicli del suo occulto divenire imperiale antecedenti e successivi al ciclo attuale, Via Deltaica governata, negli abissi, dalla divina Una, la giovane donna verde, la vergine sopracosmica, il cui nome e la cui figura irradiante si perpetuano irrazionalmente nei residui carpatici dell’antico culto del dio Zamolxis” (18).
Il romeno Dan Botta (1907-1958), poeta, drammaturgo, saggista, filologo, traduttore di Sofocle, Euripide, Shakespeare, Villon e Poe, apparteneva alla “nuova generazione” e aderì al movimento legionario; membro del comitato di direzione dell’Enciclopedia Romena, fondò nel 1941 la rivista “Dacia”. Come poeta, Dan Botta esordì nel 1931 con un volume di versi intitolato Eulalii e prefato da Ion Barbu (1895-1961), nel quale si trova la più famosa delle sue creazioni poetiche, Cantilena, scritta nelle forme e nei ritmi d’una poesia popolare. Ora, l’ “inno orfico di Dan Botta” è per l’appunto Cantilena e il brano citato da Eliade che ossessionava Jean Parvulesco è il seguente:
Pe vântiri ascult
Orficul tumult
(…)
Oh, mă cheamă-ntruna
Palida nebuna
Fata verde Una,
Şi-n mine se strânge
Piatra ei de sânge… (19)
Parvulesco ce ne dà una bella traduzione, un po’ libera, eseguita verosimilmente da lui stesso:
exposé sur les hauts vents
un orphique tumulte j’entends
quand elle dresse soudain sa lyre,
la fille verte de mon délire
Una, et qu’en moi se tend
la pierre rouge de son sang.
Nel medesimo capitolo di Întoarcerea din rai in cui sono citati i versi di Cantilena, alcuni personaggi del romanzo di Eliade cercano di capire perché mai la giovane donna amata dal protagonista, Aniceto, porti il nome di Una; uno di loro pensa alla Giunone etrusca, che si chiamava Uni, mentre un altro pensa al Dialogo di Monos e Una di Edgar Poe; ma non si arriva ad una spiegazione decisiva.
Nel 1960, ventisei anni dopo la pubblicazione di Întoarcerea din rai, Mircea Eliade ritornò sui versi di Cantilena, scrivendo in una rivista dell’emigrazione romena: “Per Dan Botta, il mondo diveniva reale quando cominciava a rivelare le sue strutture profonde, vale a dire, quando l’occhio dello spirito comincia a cogliere, dietro le apparenze, le immagini eterne, le figure mitiche. Tu penetravi nel mistero d’una notte d’estate quando riuscivi a rivelartela, come in questi versi di Cantilena: ‘Pe vântiri ascult – Orficul tumult – Când şi ardică struna – Fata verde, Una, – Duce-i-aş cununa…‘ (20). Allora il cosmo intero svelava i suoi significati profondi, poiché mil vento, la luna, erano la cifra di miti e drammi antichi, che facevano già parte della storia spirituale dell’uomo. Più esattamente: dell’uomo balcanico, intendendo con questo termine etno-geografico tutta l’Europa orientale (…) Dan Botta aveva un debole per questo territorio (…) In un certo modo era una geografia sacra, perché su queste pianure e su queste montagne gli uomini avevano incontrato Apollo e Dioniso, Orfeo e Zamolxis” (21).
La relazione tra la suprema divinità dei Daci e l’attività di Eliade è stata sottolineata da Jean Parvulesco, il quale, a proposito dei “residui carpatici dell’antico culto del dio Zamolxis”, scrive: “D’altronde, proprio prima dell’ultima guerra, Mircea Eliade non aveva cominciato a pubblicare una serie di quaderni di storia delle religioni intitolata, per l’appunto, ‘Zamolxis’ ?” (22).
Per tornare alla “fanciulla verde Una” (fata verde Una), bisogna citare un altro brano della Spirale prophétique: “Ricordo che, in certi gruppi spirituali dei più speciali e attualmente dei più ritirati, è il 7 luglio [notare la data] che si tengono le riunioni, al riparo del più perfetto segreto, per celebrare la ‘dea verde’ Una, la ‘infinitamente assente, l’infinitamente lontana, l’infinitamente silenziosa, che però presto non lo sarà più’ ” (23).
Nella “fanciulla verde Una” evocata da Dan Botta, Eugène Ionesco ha visto un’epifania di Diana ricollegabile alla mitologia legionaria, probabilmente perché il verde era il colore simbolico della Guardia di Ferro. Ma occorre anche ricordare che in Dacia sono state ritrovate diverse iscrizioni dedicate a Diana (Diana regina, vera et bona, mellifica), con la quale è stata identificata una divinità traco-getica. Conviene poi aggiungere che il nome latino Diana ha prodotto in romeno la parola zână, che significa “fata”, mentre Sancta Diana ha dato origine al plurale Sânziene: si tratta delle fate cui è dedicata la festa solstiziale del 24 giugno, coincidente con la natività di San Giovanni Battista. Ed è proprio quella del 24 giugno la “notte d’estate” che Eliade mette in relazione coi versi della Cantilena che ossessionavano Jean Parvulesco. Ricordo infine che Noaptea sânzienelor (“La notte delle fate”) è il titolo di un romanzo d’Eliade (pubblicato nel 1955 da Gallimard col titolo Forêt interdite), in cui il protagonista, Ştefan Viziru, controfigura dell’autore, si trova imprigionato insieme coi legionari a Miercurea Ciuc.
Ebbene, Jean Parvulesco ha scritto un testo mistico che s’intitola Diane devant les Portes de Memphis, stampato esattamente il 7 luglio 1985 e presentato come una liturgia di Diana.
Chi è dunque la Diana celebrata da Jean Parvulesco? La possiamo senza dubbio identificare con la misteriosa “donna coperta di sole, la luna sotto i piedi, coronata di dodici stelle” (24), che si trova, dice Parvulesco, al centro della futura civiltà imperiale eurasiatica.
E qui bisogna evidenziare un’altra convergenza essenziale tra Mircea Eliade e Jean Parvulesco: si tratta del loro comune riconoscimento del destino unitario dell’Eurasia.
Nella sua lunga conversazione con Claude-Henri Rocquet, Eliade dichiarava di avere scoperto che in Europa “le radici sono molto più profonde di quanto non avessimo creduto (…) E queste radici ci rivelano l’unità fondamentale non solo dell’Europa, ma anche di tutta l’ecumene che si estende dal Portogallo alla Cina e dalla Scandinavia a Ceylon” (25).
Quasi simultaneamente, Jean Parvulesco s’impegnava sulle vie dell’avvento dell’ “Impero eurasiatico della Fine”.
1. Parola alquanto sospetta agli occhi degl’inquisitori, che nella loro requisitoria la trascrissero nella forma endekampf. Cfr. Fiasconaro e Alessandrini accusano. La requisitoria su la strage di Piazza Fontana e le bombe del ’69, Marsilio, Padova 1974, p. 231.
2. Fiasconaro e Alessandrini accusano, cit., p. 142.
3. André Paléologue, Le renouveau spirituel du “Buisson Ardent”, “Connaissance des Religions”, avril 1990, p. 132.
4. Mihai Pelin, Culisele spionajului românesc. D.I.E. [Direcţia de Informaţii Externe] 1955-1980, Editura Evenimentul Românesc, Bucarest 1997, p. 42.
5. H. Sanielevici, Rasa lui Petrache Lupu din Maglavit, “Realitatea Ilustrată”, IXe année, n. 447, 14 août 1935.
6. E. Cioran, Maglavitul şi cealalta Românie, “Vremea”, VIIIe année, n. 408, 6 octobre 1935, p. 3.
7. Claudio Mutti, Eliade, Vâlsan, Geticus e gli altri. La fortuna di Guénon tra i Romeni, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1999, pp. 47-57.
8. Jean Parvulesco: “Une conscience d’au-delà de l’histoire”. Propos recueillis par Michel d’Urance, “Éléments”, 126, Automne 2007, pp. 54-57.
9. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, Guy Trédaniel, Paris 1986, p. 75.
10. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, p. 76.
11. Jean Robin, René Guénon. La dernière chance de l’Occident, Guy Trédaniel, Paris 1983, p. 9.
12. Jean Robin, Les Sociétés secrètes au rendez-vous de l’Apocalypse, Guy Trédaniel, Paris 1985, p. 211.
13. Jean Robin, Les Sociétés secrètes au rendez-vous de l’Apocalypse, cit., p. 335.
14. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, cit., p. 325.
15. Geticus, La Dacia iperborea, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1984.
16. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, pp. 255-256.
17. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, pp. 324-325.
18. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, p. 325.
19. “Esposto ai venti, ascolto – l’orfico tumulto (…) Oh, mi chiama di continuo – la pallida, la folle, – la fanciulla verde Una, – e in me si solidifica – la sua pietra di sangue”.
20. “Esposto ai venti, ascolto – l’orfico tumulto – quando pizzica la sua corda – la fanciulla verde, Una, – le porterei la ghirlanda”.
21. Mircea Eliade, Fragment pentru Dan Botta, “Prodromos”, 7, juillet 1967, p. 21.
22. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, pp. 325-326.
23. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, pp. 328.
24. Jean Parvulesco: “Une conscience d’au-delà de l’histoire”. Propos recueillis par Michel d’Urance, cit., p. 53.
25. Mircea Eliade, L’épreuve du labyrinthe. Entretiens avec Claude-Henri Rocquet, Pierre Belfond, Paris 1978, p. 70.