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Channel: Area Anglosassone – Pagina 72 – eurasia-rivista.org
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IL RISIKO TRANSATLANTICO

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L’Italia è un paese in piena fase di deindustrializzazione, che sta gettando via tutte le importanti conquiste ottenute con grande originalità in passato. Dal punto di vista economico, le radici dell’ascesa strategica italiana risalgono all’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) costituito nel 1933 dall’abilissimo economista Alberto Beneduce allo scopo di salvare dalla bancarotta le grandi banche e industrie italiane profondamente colpite dalla crisi scoppiata nel 1929.

Sotto la direzione di Beneduce, l’IRI risanò le attività di cui aveva assunto il controllo conferendo in tal modo allo Stato il ruolo di proprietario del 25% circa dell’intero capitale azionario nazionale. In seguito alla Seconda Guerra Mondiale, il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi e buona parte della classe politica italiana si riallacciarono parzialmente all’esperienza economica fascista al fine di colmare il vuoto pneumatico lasciato dall’inefficiente ed inadeguata grande imprenditoria privata italiana – che alla concorrenza ha sempre preferito l’assistenza statale, socializzando le perdite e privatizzando i profitti –, completamente incapace di porsi alla guida del vasto tessuto produttivo nazionale costituito da una miriade di piccole imprese. Questa abile linea politica portata avanti dai governi di Roma instaurò un particolare dirigismo economico capace di guidare i piccoli imprenditori italiani, i quali iniziarono da allora a far capo alle grandi aziende strategiche (AGIP, Ansaldo, Edison, ecc.) possedute dallo Stato. La direzione di tali grandi aziende venne naturalmente affidata a manager ritenuti capaci di elaborare strategie operative che potessero guidare efficientemente lo sviluppo industriale italiano. In questo contesto emerse un personaggio di grandissimo rilievo come Enrico Mattei, che da presidente dell’ENI non esitò a far ricorso ad ogni mezzo a propria disposizione – a coloro (come Indro Montanelli) che lo accusavano di alimentare la corruzione politica attraverso le tangenti, Mattei spiegò: «Uso i partiti allo stesso modo di come uso i taxi: salgo, pago la corsa, scendo» (1) – per ottenere la copertura politica necessaria al raggiungimento dei suoi scopi strategici. Per accattivarsi il favore dei paesi arabi, in cui risiede gran parte delle riserve petrolifere e gasifere, Mattei intraprese di fatto una politica estera marcatamente anti-coloniale (particolarmente invisa a Francia e Gran Bretagna) collegata agli interessi economici italiani, riscuotendo un notevole successo sia all’estero che in patria e provocando scossoni geopolitici capaci da un lato di intaccare il predominio del cartello oligopolistico petrolifero (le famigerate “sette sorelle”) e dall’altro di mettere in stato di allerta le dirigenze politiche di Parigi, Londra e Washington. L’eco degli “azzardi” politici di Mattei (va sottolineato, sotto questo aspetto, il sostegno diretto ai partigiani algerini in lotta per l’indipendenza dalla Francia) suscitò un animato dibattito nazionale focalizzato sulla questione energetica che pose i presupposti per lo sviluppo del settore nucleare, in cui i grandi progressi del Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari sotto la direzione dell’ingegnere Felice Ippolito consentirono all’Italia di porsi all’avanguardia anche in quel comparto dal rilevantissimo valore strategico. Con l’assassinio di Enrico Mattei e la successiva estromissione “a orologeria” del professor Felice Ippolito iniziò la lunga marcia di logoramento dell’Italia che condusse, alle soglie degli anni ‘80, alla definitiva “perdita di slancio” del paese dopo un lungo periodo di crescita poderosa protrattosi fino ad allora. A livello interno, la separazione tra Ministero del Tesoro e la Banca d’Italia ad opera del ministro del Tesoro Beniamino Andreatta sottrasse al paese la possibilità di far fronte alla propria eventuale necessità monetaria vincolando questa istituzione ad acquistare i propri titoli di debito a bassi tassi di interesse. Da quel momento, la Banca d’Italia, ha cominciato ad emettere moneta a nome e per conto dello Stato, ma rivendergliela a tassi “di mercato”, mantenuti – spesso artificiosamente – molto alti.

A livello generale, il fattore che contribuì in maniera fondamentale ad aggravare il problema fu la progressiva affermazione, in tutto l’Occidente, dei principi economici liberisti in parallelo all’ascesa al potere di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli Stati Uniti. Le politiche propugnate da queste due amministrazioni segnarono l’eclissi delle ricette keynesiane adottate in tutti i paesi OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) fino alla fine degli anni ’80 in favore delle teorie propugnate dal celebre economista austriaco Friedrich Von Hayek e dal circolo di economisti e filosofi (Karl Popper, Ludwig Von Mises, ecc.) vicini alle sue posizioni estreme. Ciò produsse ampie ripercussioni generali che comportarono anche la trasformazione del Fondo Monetario Internazionale (FMI), l’istituzione-cardine scaturita dagli accordi stipulati a Bretton Woods nel 1944. Il FMI fu costituito allo scopo ufficiale di fornire il sostegno finanziario di cui i paesi in via di sviluppo si sarebbero dovuti servire per provvedere all’importazione dei beni strumentali necessari alla costruzione di sistemi economici produttivi e sostenibili. Ma l’egemonia geopolitica statunitense sul mondo non-comunista rese di fatto il FMI uno strumento strategico di cui Washington si servì per diffondere, attraverso quelli che John Perkins ha definito “sicari dell’economia” (2), i ben consolidati meccanismi di indebitamento a livello planetario risucchiando tra le spire di Washington tutti le nazioni che facevano appello a tale istituzione. Il FMI iniziò pertanto a raccomandare riforme di “aggiustamento strutturale” fondate sul principio liberisti secondo cui ogni singolo Stato si sarebbe dovuto impegnare a gestire la propria bilancia commerciale senza ricorrere alla svalutazione monetaria, messa al bando allo scopo ufficiale di promuovere la stabilità complessiva del sistema. I paesi impossibilitati a realizzare un saldo positivo, si sarebbero quindi dovuti impegnare ad immettere sul mercato i propri titoli di debito assicurando alti tassi di interesse per renderli maggiormente appetibili. Ciò aprì ed allargò progressivamente la forbice tra questi paesi e quelli in grado di realizzare elevati livelli di export. Così l’Italia, impossibilitata a rivolgersi alla Banca d’Italia per piazzare i propri titoli a basso tasso d’interesse, cominciò ad immettere sul mercato Buoni del Tesoro a tassi di interesse crescenti; il risultato di ciò fu l’esplosione del debito pubblico – cui contribuirono anche la clientelarissima assunzione di dipendenti statali e la dissennata distribuzione di pensioni di invalidità e sussidi di vario genere –, il considerevole aggravio del vincolo estero, il crollo degli investimenti pubblici nei settori strategici di ricerca e sviluppo e il conseguente, drastico aumento della disoccupazione – che colpì principalmente le fasce più giovani della popolazione.

Si arrivò così alla seconda metà degli anni ’80, quando il Muro di Berlino cominciava a mostrare crepe sempre più visibili spalancando nuove prospettive, soprattutto di carattere economico, per il Vecchio Continente. La Germania Ovest guidata dal Cancelliere Helmut Kohl non nascose l’intenzione di ricongiungersi con la parte orientale, che durante la Guerra Fredda era stata affidata a Mosca in ottemperanza alla logica di Yalta. La Francia di Francois Mitterrand, dal canto suo, temeva però che la riunificazione tedesca fondata sulla potenza economica della sua parte occidentale avrebbe condotto all’egemonia incontrastata della Germania su tutto il continente, una prospettiva giudicata assai pericolosa dall’Eliseo per via dei disastrosi precedenti storici (Prima e Seconda Guerra Mondiale). Ricollegandosi a ciò, l’economista Nino Galloni – che dipinge un quadro estremamente degradante in cui l’operato di personaggi assai celebrati come Guido Carli si colora di tinte a dir poco fosche – racconta di un accordo tra Kohl e Mitterrand (3), in base al quale la Francia avrebbe appoggiato la riunificazione tedesca in cambio della rinuncia al marco, e alla contestuale accettazione dell’euro, da parte del governo di Berlino. Kohl era però consapevole che il ricongiungimento tra le due Germanie e la conversione dell’ex Repubblica Democratica Tedesca (DDR) all’economia di mercato avrebbe richiesto enormi risorse alla parte occidentale del paese. Di questo indebolimento si sarebbe avvantaggiata l’Italia, che, nonostante le numerose difficoltà in cui si stava imbattendo, rappresentava comunque un grande paese manifatturiero. Per questa ragione, Kohl pretese che l’accordo stipulato con Mitterrand prevedesse anche la deindustrializzazione dell’Italia. La saldatura dell’asse franco-tedesco piegò la debole resistenza opposta da parte della classe politica italiana, consentendo alla Germania di proseguire il proprio progetto di riunificazione avviato un paio di decenni prima dal Cancelliere Willy Brandt attraverso la normalizzazione dei rapporti con il blocco orientale (ostpolitik). Kohl affidò questo progetto all’abilissimo presidente della Deutsche Bank Alfred Herrhausen, che aveva le idee piuttosto chiare sul da farsi. «Entro dieci anni – affermò Herrhausen – la Germania Est diverrà il complesso tecnologicamente più avanzato d’Europa e il trampolino di lancio economico verso l’est, in modo tale che Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, e anche la Bulgaria svolgano un ruolo essenziale nello sviluppo europeo» (4). In conformità a questo scopo intendeva abolire il debito “intra-imprese”, un dato contabile che grava sulle industrie ex comuniste (nel 1994 raggiunse i 200 miliardi di marchi) considerato come un asso nella manica da Banca Mondiale e FMI, che si opponevano irriducibilmente al risanamento del comparto industriale ereditato dalla Germania in seguito alla riunificazione. Il presidente della Deutsche Bank sostenne, tra le altre cose, anche la necessità di costruire linee ferroviarie veloci che congiungessero la Germania alla Russia. Esattamente il tipo di progetto che le potenze marittime – Gran Bretagna prima e, successivamente, Stati Uniti – hanno contrastato per secoli. Herrhausen si distingueva per la visione aperta e innovativa dei rapporti internazionali proponendo di ridisegnare il ruolo della Germania, che secondo la sua concezione avrebbe dovuto fungere da ponte fra est ed ovest, nonché da motore della riconversione industriale e del nuovo sviluppo di un’Europa sottratta al controllo della Banca Mondiale e del FMI. Egli cercava, pur a spese dell’Italia, di ritagliare per la Germania un lebensraum (lo “spazio vitale”, concetto elaborato dal geopolitico tedesco Karl Ernst Haushofer prima che se ne impossessassero indebitamente i nazisti) ripristinando il drang nach osten, (la “spinta verso est”) attraverso il corridoio strategico ovest-est.  Mentre si prodigava per mettere in pratica i suoi piani, Herrhausen denunciò di essersi imbattuto «In massicce critiche» (5), in particolar modo quando si espose affinché il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale risparmiassero i paesi post-comunisti dell’est alla “terapia d’urto” di Jeffrey Sachs, caldeggiando una moratoria sul debito di qualche anno, cosicché potessero sfruttare le proprie risorse per la ricostruzione piuttosto che per sostenere i ratei ai banchieri. Nonostante ciò, Herrhausen riuscì ad acquisire un notevole appoggio in Europa, che nell’arco di pochi anni si sarebbe potuto rivelare sufficiente per far decollare i suoi progetti, il più importante dei quali riguardava la fondazione a Varsavia di una banca per lo sviluppo finalizzata a finanziare la ricostruzione e l’integrazione dell’Europa orientale con quella occidentale. L’1 dicembre 1989, con impeccabile puntualità, un ordigno esplosivo – dotato di un sofisticatissimo innesco laser – fece saltare  l’automobile blindata su cui Alfred Herrausen stava viaggiando. La responsabilità dell’attentato venne attribuita al gruppo terroristico comunista Rote Armee Fraktion (RAF), in seguito ad una superficialissima indagine.

L’acuto economista Detlev Karsten Rohwedder cercò tuttavia di inserirsi nel solco tracciato da Herrhausen. Rohwedder era a capo della Treuhandanstalt, holding pubblica che raggruppava tutte le industrie statali dell’ex DDR, dopo aver approntato e gestito di persona il piano di risanamento e riorganizzazione del colosso chimico e farmaceutico Hoechst AG. Dal momento che «Un liberismo di mercato di tipo dottrinario non funziona – affermò Rohwedder – occorre privilegiare una politica di risanamento rispetto alle privatizzazioni» (6). L’esatto contrario di quanto richiesto dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale. Rohwedder intendeva incentivare gli investimenti pubblici per rimettere in sesto ed ammodernare il vecchio comparto industriale ereditato dalla DDR, affinché «La popolazione della Germania Est superi al più presto la sua condizione d’inferiorità materiale»5. Questo (relativamente) sconosciuto economista ambiva a trasferire il controllo della Treuhandanstalt dal Ministero delle Finanze, cui faceva capo, a quello dell’Economia, in modo tale che la holding divenisse l’organo centrale di un rinnovato dirigismo tedesco. Il 12 aprile 1991, uno o più esperti sicari colpirono Rohwedder sparando tre colpi con carabina a infrarossi, che infransero una finestra della sua casa di Dusseldorf, uccidendolo. La solita RAF rivendicò la paternità dell’attentato, dimostrando per l’ennesima volta la reale funzione del terrorismo “estremista”, mera manovalanza che opera regolarmente (consciamente o inconsciamente) per ben precisi centri di potere. Non è infatti un caso che, al termine della Guerra Fredda, il direttore della CIA William Webster abbia dichiarato che «Gli alleati politici e militari dell’America sono ora i suoi rivali economici» (7), e che il suo predecessore William Colby abbia chiarito che «I mercati finanziari e valutari globalizzati oggi sono una questione di sicurezza nazionale per gli Stati Uniti» (8).

Le ultime speranze relative alla “salvezza” della Germania orientale decaddero con gli assassinii di Herrhausen e Rohwedder, Nell’arco del triennio 1990-1993 il piano relativo alle privatizzazioni disposto dal governo, piegatosi alla volontà di Banca Mondiale e FMI, toccò più di 11.000 aziende pubbliche e provocò la chiusura di oltre 2.500 compagnie. Come negli altri paesi investiti da fenomeni simili, le privatizzazioni vennero eseguite in tempi assai ristretti, consentendo a pochi uomini d’affari privi di qualsiasi scrupolo di ottenere il controllo di società più che redditizie a prezzi estremamente bassi. Alcune aziende, nonostante i loro conti fossero in attivo, vennero chiuse affinché non intaccassero il monopolio di quelle occidentali. La MZ, ad esempio, malgrado si attestasse in cima alla produzione mondiale di motocicli, fu costretta a chiudere i battenti affinché non intralciasse il monopolio dell’occidentale BMW. Alla prova dei fatti, sono i dati relativi al medesimo triennio a fornire tutte le informazioni necessarie al riguardo; la politica economica portata avanti da Kohl, imperniata sulla privatizzazione delle aziende pubbliche innescò un processo di deindustrializzazione che nell’arco di pochi mesi ridusse la produzione del 70% e dimezzò – da 9,8 milioni a 5,4 milioni – l’occupazione, portò la remuneratività dei salari dell’est, a parità di specializzazione, al 30% in meno rispetto a quelli dell’ovest e gettò nella povertà strati consistenti di popolazione.

Sul piano geostrategico, la caduta dell’Unione Sovietica insinuò invece in tutta Europa una progressiva sfiducia nei riguardi della NATO, che da strumento di difesa dalla presunta minaccia comunista aveva perso la propria ragion d’essere. L’asse franco-tedesco cominciò pertanto a sostenere la necessità di dotare l’Europa di un esercito federale autonomo, cosa che mise in stato d’allarme gli Stati Uniti; Washington temeva infatti che la realizzazione di un progetto simile slegato dai vincoli della NATO avrebbe potuto compromettere o quantomeno indebolire le buone relazioni con gli alleati, e decise pertanto di giocare d’anticipo indicendo la riunione del Consiglio Atlantico il 7 novembre del 1991. Nel corso della riunione – che si tenne a Roma – gli Stati Uniti accolsero le rivendicazioni europee accettando però di integrare l’ambizioso piano franco-tedesco nel quadro del più ampio progetto di ristrutturazione della NATO, lasciando di fatto invariati i rapporti di forza all’interno dell’Alleanza Atlantica.

Una volta soppresse le velleità francesi e, soprattutto, tedesche attraverso la NATO dal punto di vista militare e attraverso Banca Mondiale e FMI dal punto di vista economico, gli Stati Uniti orientarono le proprie “attenzioni” sull’Italia. Nel febbraio del 1992 il capo della polizia Vincenzo Parisi redasse e fece pervenire sulla scrivania dell’allora ministro dell’Interno Vincenzo Scotti un rapporto in cui erano sommariamente elencate e descritte le modalità di un imminente piano di destabilizzazione politico, sociale ed economico a danno dell’Italia (9), orchestrato da svariate forze sia nazionali che internazionali in combutta con specifiche, potentissime lobby finanziarie.  Pochi giorni dopo (17 febbraio 1992), l’arresto del secondario esponente socialista Mario Chiesa innescò una reazione a catena che travolse politici, imprenditori, faccendieri e uomini d’affari di vario ordine e grado. Emerse un desolante ma arcinoto quadro fatto di clientelismi, tangenti, bustarelle, connivenze e contiguità che portò alla decapitazione e al conseguente disfacimento dei due storici partiti di governo, Democrazia Cristiana (DC) e Partito Socialista Italiano (PSI), crollati sotto i colpi di un’agguerritissima magistratura (con il procuratore Antonio Di Pietro in prima linea) sponsorizzata dalla consueta stampa (“La Repubblica”, “La Stampa”, “Corriere della Sera”) di riferimento dei poteri forti. Nei mesi successivi gli attentati di Capaci e via D’Amelio stroncarono le vite dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e degli agenti della scorta.  «Falcone e Borsellino – osserva Benito Li Vigni – avevano processato la “mafia militare”; conoscevano le strade che portavano in alto, negli strati delle istituzioni deviate, in quelli della mafia-politica, organica al potere. Si apprestavano a spezzare l’“egida impenetrabile”, a irrompere nelle “zone d’ombra” delle consorterie occulte, a percorrere gli impervi sentieri che portano alle trame e agli intrecci inconfessabili tra borghesia mafiosa, politica, economia, finanza e che hanno segnato la “storia occulta” di questo paese» (10).

Una di queste “trame” riguardava il consolidato circuito di narcotraffico messo in piedi dalle le cosche mafiose operanti in entrambe le sponde dell’Atlantico. Durante i processi relativi alle operazioni legate al traffico di stupefacenti tra Italia, costa orientale degli Stati Uniti e la città svizzera di Lugano, gli inquirenti americani non presero in minima considerazione il ruolo cruciale svolto dalla Merrill Lynch, l’istituto bancario che si occupò del riciclaggio di denaro sporco contestuale alla cosiddetta “Pizza Connection”. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che l’incarico di segretario al Tesoro statunitense, responsabile per le ispezioni sul riciclaggio del denaro, era allora ricoperto dall’ex presidente della Merrill Lynch Donald Reagan.

Parallelamente (2 giugno 1992), il panfilo Britannia intento a trasportare la regina Elisabetta II e una nutrita schiera di finanzieri angloamericani (rappresentanti di Barclays, Baring & Co., Warburg, Rothschild Group, ecc.), gettò l’ancora al largo di Civitavecchia per permettere al gotha dell’industria e della finanza pubblica italiana di salire a bordo. Salirono Beniamino Andreatta e Riccardo Gallo, Mario Draghi, Giovanni Bazoli, Antonio Pedone ed altri. Nei giorni successivi alla riunione sul Britannia si insediò il governo presieduto da Giuliano Amato, che, oltre a trasformare le imprese pubbliche in Società Per Azioni (SPA), denunciò gli alti tassi di interesse che lo Stato stava garantendo agli acquirenti italiani per immettere i buoni del Tesoro direttamente sui mercati finanziari. In puntuale corrispondenza dell’insediamento, Moody’s – presieduta da John Bohn, che venne nominato funzionario del Dipartimento del Tesoro statunitense sotto l’amministrazione Bush – declassò drasticamente il rating dell’Italia in forza dei mancati tagli di bilancio e dell’ostinata politica assistenziale portata avanti dai passati governi. Questa scelta improvvisa fu varata di punto in bianco nonostante i dati relativi al deficit fossero pressoché inalterati da un paio d’anni. Amato corse immediatamente ai ripari, disponendo di colpo un cospicuo innalzamento dei tassi di interesse sui buoni del tesoro allo scopo ufficiale di evitare che i mercati facessero leva sull’instabilità italiana per abbandonarsi alle più rapaci operazioni speculative. Il noto uomo d’affari George Soros approfittò immediatamente della situazione e avviò un pesantissimo attacco dell’Italia. Potendo contare sulla copertura finanziaria garantita dai Rothschild, Soros puntò forte sull’effetto-leva e fece massicciamente ricorso agli strumenti derivati, vendendo lire (che non possedeva) allo scoperto prevedendo di riacquistarle a svalutazione avvenuta. Col passare dei giorni, Soros aumentò costantemente il tenore dell’offensiva speculativa e la Banca d’Italia, in ottemperanza alla strategia di difesa ad oltranza della lira elaborata dal governatore Carlo Azeglio Ciampi, bruciò diverse decine di migliaia di miliardi di lire, esaurendo ben presto quasi tutte le proprie valutarie e costringendo l’Italia ad uscire dal Sistema Monetario Europeo (SME). In sostanza, la Banca d’Italia innalzò massicciamente i tassi di interesse per difendere la moneta, alimentano lo stesso deficit che il governatore Ciampi dichiarava di voler abbattere. Dal momento che ogni punto percentuale di aumento degli interessi equivaleva a sommare diverse migliaia di miliardi di lire al debito pubblico a breve termine, emerge con sufficiente chiarezza che la strategia operativa adottata dalla Banca d’Italia contribuì di fatto ad abbandonare il paese nelle grinfie della speculazione finanziaria anglo-americana, incrementando la tendenza alla privatizzazione dettata dalla necessità di “far cassa”.

La conseguente svalutazione, pari al 30%, della lira consentì pertanto ai Rothschild e alle banche che avevano sostenuto la manovra speculativa (Goldman Sachs, Merrill Lynch, Citicorp, JP Morgan e Solomon Brothers) di mettere le mani sulle aziende controllate dall’IRI a prezzi estremamente vantaggiosi. Così, ENI, Enel, Telecom, Comit, ecc. vennero selvaggiamente privatizzate o smembrate. Le privatizzazioni proseguirono poi per tutti gli anni ’90, indebolendo notevolmente l’Italia sul piano strategico.

Oltre a qualche grande azienda operante nei settori di punta sopravvissuta all’ondata di privatizzazioni, l’unico settore che ancora riesce a tenere a galla il settore manifatturiero italiano è rappresentato dalla fitta rete di piccole e medie imprese, che attualmente soffrono enormemente l’aumento esorbitante del costo dell’energia, l’inefficienza dei trasporti, la scarsità dei servizi e le misure di austerità adottate dal governo guidato da Mario Monti (ex di Goldman Sachs nonché membro del Gruppo Bilderberg e della Commissione Trilaterale), imposto, oltre ogni ragionevole dubbio, “dall’alto”. La Germania, dal canto suo, continua a stringere i legami con Russia, Cina ed India. La visita di Angela Merkel a Nuova Delhi nel maggio 2011 ha  coronato la collaborazione con l’India, soprattutto per quanto concerne il campo dell’alta tecnologia. L’interscambio tra Germania e Cina nel 2011 ha toccato i 144 miliardi di dollari ed è destinato a raddoppiare entro il 2015, quando si stima che raggiungerà i 280 miliardi. Queste cifre permetteranno ai tedeschi di imporsi in cima alla classifica dei paesi esportatori verso la Cina, surclassando gli Stati Uniti, e a Berlino di stringere ulteriormente il rapporto strategico con Pechino. Nell’aprile 2012, il primo ministro cinese Wen Jibao si è recato a Wolfsburg allo scopo di siglare un accordo che prevede l’installazione di una nuova fabbrica della Volkswagen nella regione dello Xinjiang. Si calcola che ciò attenuerà l’alto tasso di disoccupazione locale, che finora ha contribuito primariamente ad alimentare le pulsioni centrifughe delle popolazioni indigene. Questa intensificazione dei rapporti con la Cina costituisce la parte integrante e maggioritaria di un processo che prevede il riposizionamento dell’economia tedesca in direzione dei mercati emergenti. Secondo un rapporto redatto dall’European Council on Foreign Relations, «La Germania è portata a considerare se stessa come una forza credibile in un mondo multipolare, il che alimenta a sua volta l’ambizione di divenire “globale” con le sue forze» (11).

Parallelamente, i dirigenti di Berlino difendendo a spada tratta le condizioni che tutelano il poderoso export tedesco verso i paesi membri dell’Unione Europea e permettono alle banche tedesche di guadagnare dal dissesto degli Stati meno solidi. E’ per questa ragione che la Deutsche Bank ha acceso sull’Italia una miriade di Credit Default Swap (CDS), derivati finanziari che si valorizzano con il peggioramento delle condizioni economiche italiane. Molte posizioni assunte da Angela Merkel in relazione alla Grecia e al rigore dei conti pubblici nei confronti dei paesi meno solidi, acquisiscono un significato preciso alla luce del fatto che la Deutsche Bank e molti altri istituti di credito tedeschi abbiano pesantemente scommesso sul loro declino, beneficiato dell’aumento dello spread che differenzia i Bund tedeschi dai buoni del Tesoro italiani e dai Bonos spagnoli.

La struttura dell’Eurozona permette a Berlino di avvalersi di particolari condizioni generali per operare dumping fiscale ed esportare le merci tedesche verso i paesi membri dell’Unione Europea, ma il dissesto dei paesi cosiddetti “periferici” non può che portare, a lungo termine, all’indebolimento radicale della Germania. Nonostante ciò, i dirigenti tedeschi continuano ad opporsi a qualsiasi proposta di ristrutturazione del meccanismo economico che sorregge l’Unione Europea, aggravando le condizioni complessive in cui versa il Vecchio Continente.

Questo pericoloso gioco d’azzardo (che finirà per colpire anche la Germania) pare pertanto orientato all’indebolimento complessivo dell’Unione Europea attraverso la devastazione del tessuto socio-economico dei paesi mediterranei, di cui l’Italia costituisce la punta di diamante; un obiettivo strategico di primo piano che i potenti agenti sociali dominanti operanti dalla sponda occidentale dell’Oceano Atlantico hanno perseguito – in ottemperanza alla “dottrina Webster” – con estrema ostinazione nel corso dei decenni che hanno succeduto il crollo dell’Unione Sovietica.

 

 

 

1. Cit. in Benito Li Vigni, Il caso Mattei. Un giallo italiano, Editori Riuniti, Roma 2003.

2. John Perkins, Confessioni di un sicario dell’economia, Minimum Fax, Roma 2005.

3. Nino Galloni, Chi ha tradito l’economia italiana? Come uscire dall’emergenza, Editori Riuniti, Roma 2012.

4. “Il Tempo”, 30 novembre 2009.

5. Ibidem.

6. “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, 30 marzo 1991.

7. “Corriere della Sera”, 10 marzo 1993.

8. Ibidem.

9. Intervista a Vincenzo Scotti pubblicata da “Il Tempo”, 6 dicembre 1996.

10. Benito Li Vigni, I predatori dell’oro nero e della finanza globale, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2009.

11) “Corriere della Sera”, 24 aprile 2012.


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